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Ridurre i costi e limitare l’uso di acqua dolce nella produzione di idrogeno è possibile. Lo dimostra una ricerca dell’Università di Princeton, che ha verificato la fattibilità dell’elettrolisi applicata all’acqua trattata dai depuratori. Il risultato? Una riduzione dei costi di produzione del 47% e una prospettiva concreta per rendere l’idrogeno una risorsa davvero sostenibile.

Acqua recuperata: la nuova materia prima per l’idrogeno

L’idea alla base dello studio è semplice quanto rivoluzionaria: utilizzare l’acqua di recupero proveniente dagli impianti di trattamento dei reflui urbani e industriali per alimentare gli elettrolizzatori.
Questa soluzione potrebbe alleggerire una delle principali criticità della “hydrogen economy”: il consumo di acqua dolce ad alta purezza, oggi indispensabile per la maggior parte delle tecnologie di elettrolisi.

Gli esperti ricordano che per ogni chilogrammo di idrogeno prodotto tramite celle PEM (Proton Exchange Membrane), servono in media 10 kg di acqua pura e oltre 19 kg per il raffreddamento degli impianti. Dati che, in un contesto di crescente stress idrico globale, rendono urgente la ricerca di fonti alternative.

Perché l’acqua dei depuratori può funzionare

Secondo il team guidato dal professor Z. Jason Ren, ogni città dispone di un impianto di trattamento delle acque reflue: una risorsa finora sottoutilizzata, ma potenzialmente strategica per la produzione di idrogeno.
Il gruppo di ricerca ha dimostrato che, anche se l’acqua depurata contiene ancora impurità, è possibile ottenere buone prestazioni di elettrolisi con opportuni accorgimenti tecnici.

Il principale ostacolo è rappresentato dagli ioni di calcio e magnesio, che tendono ad aderire alla membrana dell’elettrolizzatore, riducendone la conduttività e bloccando il passaggio dei protoni. Questo processo, noto come fouling, accelera la degradazione del sistema e ne riduce l’efficienza.

La soluzione trovata dai ricercatori

Per superare il problema, il team di Princeton ha sperimentato un metodo tanto efficace quanto economico: acidificare leggermente l’acqua recuperata.
Aggiungendo acido solforico al flusso in ingresso, gli scienziati sono riusciti a eliminare le impurità cationiche responsabili dell’intasamento e a prolungare la durata operativa dell’elettrolizzatore da meno di 8 ore a oltre 300 ore continuative.

Come spiegano gli autori, l’acido fornisce protoni in eccesso, mantenendo costante la conduttività e impedendo ai metalli disciolti di danneggiare la membrana.

“Non serve più purificare completamente l’acqua,” spiega il professor Ren. “Basta una semplice acidificazione per garantire stabilità e prestazioni elevate per centinaia di ore.”

Dal laboratorio all’industria: prospettive e vantaggi

Secondo le simulazioni del gruppo di ricerca, la produzione di idrogeno dalle acque reflue trattate consentirebbe di:

  • ridurre del 47% i costi complessivi di trattamento dell’acqua,
  • tagliare del 62% il fabbisogno energetico legato alla purificazione.

Questi numeri rendono il processo non solo sostenibile dal punto di vista ambientale, ma anche competitivo su quello economico.
Oggi il team di Princeton sta collaborando con partner industriali per testare la tecnologia su scala reale e verificarne l’efficacia nei sistemi di produzione commerciale.

Una nuova opportunità per l’economia circolare

Trasformare un rifiuto – come l’acqua reflua – in una risorsa per la transizione energetica significa compiere un passo decisivo verso l’economia circolare dell’idrogeno.
Se i risultati ottenuti in laboratorio verranno confermati anche in ambito industriale, la produzione di idrogeno verde potrà finalmente liberarsi dal vincolo dell’acqua dolce, contribuendo a una filiera energetica più efficiente, locale e sostenibile.

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